IV

L’ode milanese e il «Commento alla chioma di Berenice»

1. L’ode milanese

L’ode milanese rappresenta certamente l’impegno maggiore del 1802-1803 e di fronte ai grandi sonetti essa importa insieme un momento di iniziale stimolo e di schermo neoclassico dall’urgenza ortisiana, un accompagnamento di attenzione alla letteratura antica e a misure di estrema eleganza e un lungo esercizio di alta elaborazione artistica che chiude dentro di sé gli ultimi sonetti e si riattacca in un periodo di studio intenso e di meditazione critico-poetica alle formulazioni programmatiche del Commento alla Chioma di Berenice.

Da questo punto di vista appare chiaro come la ode rappresenti un momento fondamentale nell’evoluzione poetica foscoliana in cui l’esempio dei classici (piú diretto che non nella prima ode tutta intrisa di forme settecentesche) venne sentito, in coerenza con il suo animo dopo l’espressione dell’Ortis, come potente contravveleno alla esuberanza autobiografica, come scuola di misura e di alleggerimento dopo la prova poetica drammatica dei primi sonetti, e la stessa elaborazione («vo ondeggiando...», aprile 1802, «l’ode è finita», aprile 1803) indica bene la natura di costruzione lenta ed attenta dell’ode ben lontana da una composizione impetuosa, e tale invece da permettere sul suo margine anche la revisione e il raddrizzamento della prima ode rivista nel suo ritmo essenziale di danza.

L’ode nasce dopo l’Ortis e mentre la prima usufruiva appena di certe esperienze d’adolescenza e delle pagine padovane delle «Quarantacinque lettere», questa ha il sostegno della direzione cosí sviluppata nell’Ortis milanese della bellezza celestiale, degli appunti di certi sonetti (il finale del IV e dell’VIII) e della stessa prima ode oltreché della esperienza tra autobiografia e poetica del Carteggio Arese in cui al vagheggiamento della figura di Teresa nell’Ortis e nei sonetti, all’inno alla bellezza della prima ode (con la sua tipica situazione di evasione, di esplosiva gioia vitale rivista nella eleganza galante del neoclassicismo settecentesco), si sostituisce, piú che una precisa figura di donna (che semmai appare come freno – il «cuore fatto di cervello» dell’Arese – all’appassionato elogio fantastico del poeta e nella cronaca della civetteria causa di apprensione e di ansia, ma che tuttavia sul motivo della voluttà rinforza immagini piú sbiadite e convenzionali), uno stimolo ardente nell’anima del poeta a sensazioni di sogno amoroso consolatore, unico contrappeso, «ristoro» all’infelicità abbondantemente accentuata in queste pagine.

Nell’Ortis era apparsa la parola «ristoro», ma la bellezza di Teresa, nelle condizioni negative del suo sposalizio, lungi dal far tacere le altre passioni che conducevano Jacopo al suicidio le aveva rinforzate e nell’Ortis la forza delle illusioni (le Najadi, la bellezza) era troppo parziale e momentanea (come nella prima ode era rimasta troppo isolata pur nella sua forza vitale innegabile). Nel Carteggio invece si afferma una posizione fondamentale e nuova di cui solo una lontana radice si può ritrovare nella prima ode: l’esperienza amorosa, la fruizione e la contemplazione della bellezza (e della femminilità) giunte sino alla voluttà, ai misteri della voluttà (che richiamano il tono elegante della lettera padovana, la celebre pagina A Psiche dei Frammenti di un romanzo autobiografico e qui arrivano a questa effusione su cui nascerà con forza stilistica l’espressione dell’ode: «ove a me sol sacerdotessa appari», «Che mattina beata! incantatrice! tu hai fatto scorrere le ore sparse di voluttà! questa frase è ella troppo fantastica! non lo so... ma so bene ch’io ne sento tutta l’evidenza», Epistolario, I, p. 302), appaiono al poeta nel limite della loro provvisorietà, in una acuta nostalgia preventiva (tanto che spesso in queste pagine si sente l’ansia di chi si prepara ricordi felici) e insieme nella loro eternità ideale, nella loro capacità di trasformarsi mercé la poesia in momenti fantastici e intangibili, «celesti» e tali dunque da resistere effettivamente come illusione-valore, come «ristoro» unico ai mali. «O mia consolatrice!» dice il Foscolo all’Arese (Epistolario, I, p. 334) e insieme (p. 210) «Oh potessi io rendere eterna la tua bellezza e la tua gioventú!».

Quel desiderio e quella esclamazione sono bene all’origine dell’ode in un momento di maggior sicurezza e fermati da una lunga precisazione artistica. E se l’amore per Antonietta congiunge bellezza e «ristoro» («Oh se tu leggessi nel mio cuore quando que’ tuoi grandi occhi divini s’incontrano ne’ miei, tu ti compiaceresti del conforto che procuri a questo sventurato»; p. 215) nel presente, li congiungeva piú poeticamente nel futuro, nel fantasticato futuro in cui piú saldamente sventura e consolazione si univano come nel clima alto delle Grazie[1]. «Nondimeno io mi dimenticherò di M.me Arese, ma non della mia Antonietta di sei mesi addietro, Questo però non fu che una creatura della mia fantasia, ma la tristezza degli uomini, la infelicità della mia vita non mi fanno sperare piú che nell’illusione ed amo di accarezzare quest’idolo lusinghiero» (p. 404) perché «gl’infelici mortali sono sempre condannati a desiderare il tempo passato di cui ci ricordiamo i piaceri avendo obliato i dolori...» (p. 405).

Leopardi nella ripulsa della Fanny scrisse Aspasia, Foscolo nell’abbandono – se non avvenuto, già prefigurato e annunciato dai fatti – di Antonietta scrisse la grande ode, atto di fede nella virtú consolatrice della bellezza (quindi della vita nel suo attacco piú essenziale e piú raffinato) e nella virtú eternatrice della poesia che prende il posto della gioia vitale sentita in una evasione elegante nella prima ode e che alla presenza del dramma alleggerito e respinto, ma non soppresso («le nate a vaneggiar menti mortali»), rappresenta del Carteggio un momento parallelo alla storia interna dei sonetti postortisiani in attesa dell’unificazione piú intera nelle Grazie: in quelli il motivo dell’infelice perseguitato, della illacrimata sepoltura, dell’aspirazione alla «quiete», nell’ode il motivo della consolazione e della pace eternatrice. Ma già nell’ode la vicinanza è ben maggiore che fra prima ode ed Ortis o primi sonetti e se fra l’«illacrimata sepoltura» e il «giorno dell’eterna pace» corre un divario essenziale, c’è già una comune fermezza limpida, c’è una considerazione contemplatrice e insieme pensosa in quel dolore e in quell’accenno sereno.

In tal senso è subito chiara la differenza profonda che c’è fra le due Odi, ingannevolmente avvicinate per una specie di somiglianza di argomento e di situazione simbolica (guarigione dopo malattia), e se le correzioni dell’edizione 1803 fatte dall’alto della nuova ode nella prima ci hanno già mostrato quale altezza di gusto e quale intonazione piú ampia e profonda sia nella nuova ode, il cammino percorso dal Foscolo negli anni essenziali 1800-1801-1802 mostra in questa i suoi frutti. Nella prima una certa angustia che si traduce persino nel ritmo, nel metro piú uniforme, una concezione vigorosa e genuina (scoperta della vitalità nella gioia di un mondo elegante), una parzialità necessaria, ma pericolosa nel suo limite di eleganza ironica e sorridente, nella sua utilizzazione di mitologia levigata e senza vero riferimento all’essenziale dramma foscoliano; nella seconda una base piú larga e complessa, piú profondamente autobiografica: la nascita greca, la vocazione alla poesia, il valore eternatore della poesia, creatore di miti e di civiltà, il legame fra società mondana e poesia, fra la figura essenziale della donna-dea e lo sfondo animato di una società insieme moderna e trasfigurata classicamente su linee omogenee ad una moda risentita personalmente. E soprattutto la nuova spina dorsale rappresentata dall’inno alla bellezza consolatrice e alla poesia che la eterna: motivi essenziali e centrali per tutta la poesia foscoliana.

La diversità di altezza e profondità non toglie naturalmente che la nuova ode abbia usufruito dell’esempio della prima non solo per lo spunto di vitalità gioiosa e trionfale (specie raccolto dal finale cosí deciso e chiaro), ma per la qualità di direzione figurativa e musicale di eredità settecentesca, sulla linea che l’Algarotti indicava per le poesie erotiche (rima, ritmo rapido e uso della mitologia)[2].

In quel senso, come notammo, la prima ode aveva, pur nella sua origine particolarissima e isolata, aperta una strada essenziale per il neoclassicismo foscoliano, e indubbiamente forti legami uniscono le due Odi nella loro esigenza mitico-figurativa cosí appoggiata alle immagini neoclassiche (specie la seconda), nel loro linguaggio prima piú ironico-galante, poi piú alleggerito e mitico ma sempre lontano dall’impegno sentimentale di quello dei sonetti, se pur nella seconda piú mediatamente pensoso e nella sua limpidezza piú contemplativo e non privo di echi rapidamente rappresi.

La correzione della prima ode («E te chiama la danza») è rivelatrice della comprensione che il Foscolo ebbe nel 1802-1803 della natura piú interna di quel componimento: movimento gioioso ed elegante, visione mobile, che corrisponde al legame piú immediato fra le due Odi anche se nella seconda il movimento si è fatto insieme piú continuo e piú lento, piú sinuoso, piú complesso, piú maestoso ed intimo coerentemente al sentimento alto tra esperienza amorosa innalzata in tono di inno, visione fantastica e precisa di riferimento ad un mondo di eleganza reale, piano di contemplazione poetica che nella prima mancava.

Il movimento essenziale (che non è senz’altro caratteristico di ogni simile produzione neoclassica e che ad ogni modo anche di fronte alle Odi galanti pariniane è qui accentuato in maniera eterna ed intima notevolissima[3]), rispondendo anche a quel gusto di rapidità pindarica che il Settecento cercò avidamente («il faut que l’ode vole; sa trace doit être insensible; elle ne s’appuie que pour s’élancer; c’est entre le ciel et la terre que sa route est manquée par les Muses. Toute chute est impardonnable, et s’il ne lui est pas possible de se soutenir constamment à la même hauteur, il faut que sa descente soit pareille au vol d’un oiseau qui s’abaisse un instant pour reprendre aussi-tôt un élan plus rapide et plus élevé», Essai sur Pindare et sur la vraie manière de le traduire; par M. Vauvilliers, Paris 1772), nella nuova ode corrisponde nella sua maggiore complessità[4] ad una concezione cosí diversa rispetto alla prima, come ha già dimostrato la genesi ricercata dentro il Carteggio per cui non si può dire come il Porena (op. cit., p. 429) che «le due Odi sono fiorite negli strati superficiali dell’animo foscoliano», dato che la seconda esprime un motivo fondamentale ed essenziale per lo sviluppo della poesia successiva.

Quell’unione del «passionato» e del «mirabile» di cui il Foscolo ci parla nel Commento alla Chioma di Berenice fa qui la sua prima apparizione e, se meglio ne verificheremo la grandezza nei Sepolcri e nelle Grazie, certo è che già qui indica la via foscoliana al nuovo regno del mito ed implica una partecipazione personale non retorica fra amore, adorazione di una concreta immagine di bellezza e di ricordo di pienezza vitale, enucleazione e contemplazione di un’immagine di consolazione e di pienezza poetica.

Il mito entra ormai in quest’ode, se non carico della “storia” come nei Sepolcri e nelle Grazie, certo inteso come nucleare contatto fra verità e poesia, fra vita storica e poesia, e se permane l’atmosfera di eleganza mondana che piú fortemente si avverte nella prima, ma che qui è piú fortemente rappresentativa di una società e di un senso della società del tempo, quasi automaticamente disposto a tradursi classicamente, l’attacco alla società è tanto piú forte quanto piú forte è la trasfigurazione fantastica sicura, piena, trionfale.

Donna reale e donna sognata (si ricordi «quasi una creatura della mia fantasia» e insieme «la mia Antonietta di sei mesi addietro»), società reale e mondo di mito perfetto, impeto vitale e atteggiamento pensoso e linea essenziale di inno alla bellezza consolatrice e alla poesia eternatrice: ecco la base e lo sviluppo della grande ode di fronte a cui precedenti letterari settecenteschi (soprattutto Parini[5], esempio di gusto figurativo) hanno diversa funzione che nella prima ode, dove coincidevano con una piega edonistica, di evasione gioiosa, e contribuivano alle limitazioni miniaturistiche e di quadretto elegante: qui, pur conservando il contatto fra eleganza settecentesca e il sorriso dell’ammirazione foscoliana, sono piú direttamente dominati e servono a precise intenzioni stilistiche, a momenti funzionali, mentre il classicismo piú intenso deriva piú direttamente dai classici e da una interpretazione personale, da una nuova vita di miti e di suoni nell’animo foscoliano: l’incontro di figurativo e musicale che si attuerà nelle Grazie è qui piú chiaramente avviato e avviato qual neoclassicismo arioso, intimo, di immagini trascoloranti che è ben diverso – pur mantenendo in quest’ode con esso i piú chiari contatti – con il classicismo prevalentemente miniaturistico del Settecento.

Questa è la vera ode neoclassica foscoliana e i ricordi di Savioli, Bertola, ecc. non vivono se non come sfumature saldamente dominate e lo stesso morbido brio pariniano è sottoposto ad una specie di intensificazione e di rallentamento.

Nella scena vasta e sicuramente costruita (fra interni di palazzo signorile, sale e visioni di Olimpo e di mare greco tutti legati fra moderno e antico dalla moda neoclassica di per sé suggestiva di una atmosfera greca letteraria, ma stimolante[6]) la ode si svolge con continuità e con un crescendo di suggestioni che non permette di accettare senz’altro la tesi del Citanna, secondo cui l’ultima parte sarebbe un’aggiunta non poetica e un ritorno di pura moda mitologica, perché le ragioni essenziali della poesia (esaltazione della funzione poetica immortalatrice e deificazione della donna da parte del poeta “naturalmente” greco) non sono solo necessarie allo schema ideale della poesia (e certo se ne può estrarre anche una funzione programmatica che lega l’ode al Commento e ne accentua il carattere di costruzione artistica oraziana) ma sono essenziali al motivo alto, celebrativo dell’ode (del «mirabile» piú che del «passionato», si potrebbe dire) che partendo dallo spunto della guarigione (non certo sentito tragicamente e con trepidazione, ma essenziale a questa specie di nascita della bellezza, di questo sorgere della bella immagine femminile da uno stato di torpore) sale attraverso la rappresentazione del ballo sino alla deificazione finale.

Sviluppo grandioso e necessario, architettura sicura e originalissima (non la simmetria esterna di tanto neoclassicismo, ma una organicità, per quanto piú misurata e proporzionata, che ricorda quella dei grandi sonetti), tono trionfale, ma ricco sulla direzione della religione della bellezza e della poesia, di sfumature molteplici e approfondito dall’interno da un senso di attenzione pensosa, di presupposto doloroso del «ristoro». Ché qui è il punto essenziale dell’ode: non piú “sforzo”, ma «ristoro» e d’altra parte non fuga dall’insecuritas, dall’“errore” e dall’“ambascia”, ma sollievo dalle «cure», in una zona piú intima, di sentimenti profondi e mediati, disacerbati da ogni urgenza enfatica.

Il dramma è stato alleggerito, essenzializzato, l’evasione ha un tono piú interno, piú pacato, meno brillante e impetuoso anche se pure sempre con il suo limite di pericolo estetico che persino nelle Grazie potrà comparire in condizioni di una coscienza sempre piú profonda della vita, della civiltà, della morte.

Non dunque va esagerata la accentuazione delle espressioni che accennano alla morte e alla condizione infelice degli uomini (che evidentemente tutto viene alleggerito al massimo e la morte non è nominata se non come perifrasi elegante e indolore, molto piú innocua della «fatal quiete», e la sorte degli uomini è circonfusa quasi da un tenue sorriso: «le nate a vaneggiar menti mortali»[7]) né d’altra parte abolita la loro presenza essenziale.

Non piú pura galanteria e fascino della bellezza “amabile”, ma robusto senso della bellezza consolatrice, illusione-valore che sorge su di un accordo di cuori e di infelicità, sperimentato e sentito nella sua realtà: le «trepide madri» e «sospettose amanti», gli «ammiratori sospirosi» hanno una vitalità inizialmente autonoma, e l’eco di cronaca politica pur fatta in un’aura di eleganza sorridente non è certo casuale, introduce per scorcio un lato della vita entro cui sorge l’immagine della donna-dea, come l’intervento centrale e finale del poeta glorificatore-amante (ma piú glorificatore che amante) e greco iniziatore di una poesia italo-greca ha ben diversa forza degli accenni di trepidazione scherzosa («Pera») della prima ode.

E l’appassionato senso della bellezza presuppone l’amara coscienza di tutta la vita; la luminosità, l’aria serena dell’ode vibrante su di una esperienza concreta, la letizia trionfale è tesa da una coscienza virile ben diversa dall’edonismo sensuale o dalla grazia scherzosamente sospirosa di altri poeti del Settecento e proprio quelle parole «edonismo», «grazia», «eleganza sensibile», che ancora per la prima ode potevano adoperarsi, qui divengono improprie: il sorriso si è fatto piú fine ed elusivo, di una serenità piú seria, piú assorta, di un senso della vita piú pieno e problematico.

Se non mancano sfumature preziose, accordi pariniani («egro talamo», ecc.) di gusto settecentesco, si può ben dire che la nuova ode ha già piú direttamente portato l’aspirazione neoclassica foscoliana in contatto con i motivi piú profondi del suo animo romantico.

* * *

Venendo ad una rapida analisi dell’ode, nella sua effettiva realizzazione e nella vita del suo motivo fondamentale, consideriamo anzitutto l’apertura grandiosa nel paragone nuovo, vibrante e sereno fra la stella di Venere illuminatrice dell’alba e la figura della donna che sorge dal suo letto malata. Il movimento ampio, sicuro (quello della prima ode era impreciso e rapidissimo come un colpo di cembalo, ma piú brillante e impetuoso: questo è preciso, ma piú lento, meno minuto e leggiadro, piú meditato)

Qual dagli antri marini

l’astro piú caro a Venere

co’ rugiadosi crini

tra le fuggenti tenebre

appare, e il suo viaggio

orna col lume dell’eterno raggio;

sorgon cosí tue dive

membra dall’egro talamo,

e in te beltà rivive,

l’aurea beltade ond’ebbero

ristoro unico a’ mali

le nate a vaneggiar menti mortali)

muove e illumina anche i particolari piú leziosi e miniaturistici settecenteschi ancora presenti («co’ rugiadosi crini»), sostiene col bellissimo uso dell’arcatura (al 4-5 e al 7-8) un ritmo vasto e meno puntuale (coincidenza fra tecnica della grande ode e dei grandi sonetti) allargato nell’essenziale endecasillabo di chiusura in un organismo di due strofe presentato come esempio essenziale di questa poesia e nucleo fondamentale del motivo ispiratore dell’«aurea beltade» espresso fra trionfo di inno (la ripetizione su «beltà», l’«aurea beltade») e rapido, non sentimentale accenno alla sorte infelice degli uomini in un pensoso sospiro.

Inizio denso ed esemplare di questo “odeggiare” cosí ispirato e cosí tecnico (con implicito un programma ed un bando personale come meglio vedremo nel finale), cosí volontariamente elaborato su immagini classiche in cui il margine prezioso settecentesco è diminuito, usufruito in sfumature coscienti del proprio valore minore, e piú dominato da un autentico contatto con testi classici e da una volontà di classicismo meno esteriormente decorativo ed ironico. Voglio dire che la forza ispiratrice, la larghezza di esperienza nuova qui sintetizzata e il senso nuovo del mito, dell’operazione celebrativa della poesia hanno superato lo stadio ironico-edonistico della prima ode, hanno dato all’affermazione di vitalità una risonanza piú fonda e una giustificazione piú complessa come anche artisticamente l’architettura e l’elaborazione dell’ode hanno una coscienza piú sicura, un riferimento piú saldo ad una poetica in divenire, mentre nella prima ode c’era insieme qualcosa di piú immediato e di piú letterario e settecentesco.

Cosí la coscienza della utilizzazione letteraria è qui ben chiara e il Foscolo la documenterà nel Commento alla Chioma di Berenice («I poeti dopo Omero, che chiama Espero la piú bella delle stelle – Il., XXII, p. 318 – la ascrissero sempre alla piú bella delle dive» Mosco, Idill., VII, «Espero aureo splendore dell’amabile Venere». Anche Virgilio «Qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda / quem Venus ante alios astrorum diligit ignes / extulit os sacrum coelo tenebrasque resolvit». Divini versi dei quali fu fonte Omero – Il., V, 5 – imitato da Pindaro – Istmica, IV, 1 e ss. –, da Dante – Purg., XII, 88), ma diversamente dalla prima ode l’assimilazione è piena e il rilievo dei punti piú preziosi è ridotto e usufruito per un’eleganza piú continua e sicura.

Sull’appoggio della grande apertura che presenta il motivo essenziale e il ritmo essenziale delle immagini (il sorgere luminoso che domina tutta l’ode sin dalla deificazione) si apre la terza strofa che presenta lo spunto della visione della donna-bellezza in un clima di affetto («caro viso»), di ammirazione («torneranno i grandi occhi al sorriso / insidiando»), di ironico riflesso della società milanese in una traduzione letteraria (Orazio, II, 8)

(Te suis matres metuunt iuvencis,

te senes parci miseraequa, nuper

virgines, nuptae, tua ne retardet

aura maritos)

ed elegante, non priva di un fremito squisito, se non certo di una commossa compassione (come pensa il Fubini[8]) per una realtà circostante, e soprattutto motivo di fascino accresciuto intorno al grande verbo «insidiando».

Ma la fermezza leggera di questa strofa è solo l’inizio di una serie di strofe che vanno crescendo da elegante traduzione mitica di una realtà moderna nitida e galante alla grande visione della donna nei «cori notturni» suonatrice e danzatrice in cui il sorriso, l’ammirazione sincera e appassionata, ma alleggerita in contemplazione, si uniscono a un senso alto della bellezza che crea un clima eletto, fra grande scena di ballo neoclassico e visione di Olimpo.

L’inizio è tenue e quasi decorativo

(Le Ore che dianzi meste

ministre eran de’ farmachi,

oggi l’indica veste

e i monili cui gemmano

effigïati Dei

inclito studio di scalpelli Achei,

e i candidi coturni,

e gli amuleti recano),

ben piú alte e nuove sono le strofe che seguono (sesta, settima, ottava): nell’atmosfera classica, eletta, creata dai disegni precedenti, ravvivata da una morbida, ma limpida voluttà sospirosa (che mancava nella prima ode piú leziosa e piú acerba), l’immagine della donna amata si muove ormai dominante, libera, dopo le apparizioni parziali, la poesia trova la sua parte piú viva anche se non certo definitiva e conclusiva.

O quando l’arpa adorni

e co’ novelli numeri

e co’ molli contorni,

delle forme che facile

bisso seconda, e intanto

fra il basso sospirar vola il tuo canto[9]

piú periglioso...

La simpatia affettuosa, l’ammirazione per la donna, piú volte espressa nel Carteggio, riscaldano il tessuto elegante e l’evocazione di questa figura altamente neoclassica e fortemente moderna (sulla direzione delle donne-sacerdotesse delle Grazie che qui hanno la loro prima origine) trova la condizione di una visione nitida e di un tono di sogno, di rapimento, in cui il disegno cosí perfetto ha la morbidezza viva di un movimento che passa dal fluire delle linee del bel corpo che «adorna» l’arpa al volo del canto affascinante, all’esplicito impeto lieve («balli disegni»), che si riflette nel «sommosso petto» per placarsi di nuovo in figura compiuta nel cadere lento delle trecce e nella voluta ampia e suggestiva degli ultimi versi.

La strofa nona funziona da raccordo tra la prima e la seconda parte (otto strofe la prima, otto con questa la seconda): e si noti come in quest’ode il Foscolo abbia fatto ben piú che nella prima un’attenta prova di costruzione senza cadere in forme di simmetria rigida ad anzi mostrando nel legame di strofe come la sesta e la settima la novità della sua tecnica della misura lunga ed organica ottenuta con molta maggior sicurezza di quanto era avvenuto nella prima ode in cui la sequenza piú fluente e lunga delle strofe quarta, quinta e sesta fu opera della nuova redazione.

Nella strofa nona l’ultimo accenno alle iniziali condizioni della poesia (guarigione e risorgere della bellezza) servirà da base per la deificazione della donna.

Sul cambiato valore del tempo (le ore volano invidiate, non piú «meste») tutto trionfale e felice è ancor piú attenuato il senso tragico della vita (rivisto in ogni modo sulla direzione della bellezza, sia pure affermata «fugace») e la fugacità della bellezza e la morte sono insieme enunciate e scongiurate in un sorriso pensieroso, in quella forma elusiva che ha superato gli entusiasmi e le delusioni dell’Ortis, smorzate dall’estrema eleganza dell’espressione, allontanate nel ritmo lieve e nel suono limpido, ma non annullate. Perché la presenza di questo accenno è essenziale (tra l’altro a dar la misura della coscienza e dell’intenzione generale del poeta) e la strofa è la necessaria apertura della nuova parte, delle strofe animate dal motivo della deificazione della donna da parte della poesia che non interverrebbe se non sul presupposto di un “dubbio”, del bisogno di una riprova, di un’alta esemplificazione che è insieme trasfigurazione effettiva in un altro regno mitico di cui quello della prima parte era solo l’anticipazione come piú mondana e particolare (anche se poeticamente piú realizzata): la donna non solo è guarita, ma ogni dubbio di futura decadenza per malattia o per morte deve essere fugato. A ciò serve l’esempio delle dee della mitologia greca, donne deificate dalla fama e dalla poesia come avverrà della Fagnani Arese che per la sua bellezza, per la sua qualità di sacerdotessa di Venere sarà deificata dal Foscolo, greco e poeta, destinato dalla nascita ad una poesia glorificatrice e volontariamente deciso ad una poesia italo-greca, di nuovo classicismo originale e tradizionale.

La parola «mortale» all’inizio della serie di strofe mitiche raccoglie l’ombra di dubbio sparsa dai versi precedenti e nell’esemplificazione (piú che esemplificazione, evocazione di donne-dee e individuazione dell’origine del mito: fama e poesia) delle strofe decima, undicesima e dodicesima, il poeta cercherà di condensare epiteti eletti, denotanti “divinità”, ad ottenere la conferma della possibilità e della realtà della divinizzazione dell’«amica risanata» (nella prima ode il finale era solo un paragone e un ardito trapasso da cronaca mondana a regno mitico). In realtà le tre strofe, che si seguono con una certa rapidità e conclusione a quadretto mosso da un ritmo e un processo intimo simile, pur nella loro ineliminabile funzione e nella loro nitida lucentezza animata e distesa dai finali cosí ampi e trasvolanti (specie della dodicesima) hanno in sé qualcosa di piú spigliato che non di profondo ed esemplari per il linguaggio conciso, classico prevalente ora nel Foscolo, rimangono però nello stadio piú esterno di concisione ed eleganza senza il fremito piú sottile, la morbidezza e il segreto sospiro nostalgico e dolente che ritroveremo nelle parti piú alte delle Grazie e che nella stessa ode avevano dato prova della loro presenza.

La «parrasia pendice», la «casta Artemide», l’«arco cidonio», «l’elisio soglio» ed il «certo telo», l’«invitta amazzone», il «vocale Elicona» e «Anglia avara», con diversa intensità e con funzione simile di eletta nobilitazione e di necessità indiscutibile sulla via dei Sepolcri e delle Grazie, nella mossa generale ferma e calma, quasi storica (testimonianze), finiscono però per prevalere nella linea generale come nel quadretto delle Ore “cameriste” e portano un’aura persino troppo eletta e preziosa, anche se qui priva della galanteria e della moda.

E certo la poesia sale a condizioni piú pure dopo la serie delle tre strofe, pur cosí interessanti per la varietà introdotta con il loro procedere staccato e concluso su di un legame interno ideale e poetico, e le due coppie di strofe (tredicesima e quattordicesima e quindicesima e sedicesima) nella loro unità vasta e complessa respirano un’aria piú aperta e si sentono piú intimamente legate ad una espressione personale.

Il suono pacato e lucente delle strofe precedenti si fa qui piú arioso e morbido nella sua limpidezza e la rappresentazione di Venere si intreccia con quella della sacerdotessa Antonietta e con una nuova precisazione trionfale del motivo della bellezza consolatrice e divina: «ove a me sol sacerdotessa appari». Tale è Antonietta come quella che «ravviva per lui il mondo eterno della bellezza cantato dai poeti e adorato dai popoli antichi», come dice il Fubini, giustamente allontanandosi dall’interpretazione piú banale di una orgogliosa rivendicazione del possesso “esclusivo” della Fagnani.

La Fagnani solo al Foscolo (amante-poeta e animo disposto a sentire gli effetti arcani della bellezza e la sua trasfigurazione mistica, il valore superiore e beatificante dell’amore) può apparire sacerdotessa di Venere, ministra di un culto a cui fanno commento tante pagine del Carteggio e le pagine a Psiche del Sesto tomo dell’io.

Culto della bellezza consolatrice che presuppone sempre l’inno amato dei Frammenti (Prose, ediz. Cian, II, p. 174: «O natura! accogli quest’inno de’ tuoi figli. I mortali dovrebbero maledirti e renderti questa vita. Pianto, speranza, terrore e morte, ecco i nostri elementi. Ma tu hai creato la Bellezza! E noi, adorandola, ti rendiamo grazie anche per i nostri mali. La preghiera è fatta»).

Dagli «arcani lari» il mito di Venere conduce improvvisamente la scena della poesia (dopo il primo passaggio dalle sale all’Olimpo e alla Grecia mitica) nella vastità del mare Ionio:

Citera

e Cipro ove perpetua

odora primavera

regnò beata, e l’isole

che col selvoso dorso

rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

Sulla grande apertura di paesaggio sereno e potente (la Grecia del Foscolo non è la Grecia convenzionale di tanto Settecento) si muove naturale (e non certo «perché il poeta si lascia sorprendere da un momento nostalgico...», come dice un recente commentatore, G. Troccoli, Ugo Foscolo. Liriche e prose, Firenze 1945) l’ultimo tempo dell’ode, essenziale a chiudere la superba costruzione ed importante a ribadire (in un nesso vitale di sentimenti poetici tutt’altro che sforzati, in un periodo – come A Zacinto – di ripensamento del proprio passato e del proprio futuro) la natura artistica di questa composizione elaborata e complessa.

La immagine di Saffo («l’amorosa fanciulla, immortale quanto le Muse», come la chiama nella lettera del 3 dicembre l’Ortis) si svolge da quella del mare greco in una serie omogenea di sentimenti e di figure, di idee: non occorre, come fa il Porena, parlare di romanticismo (ché se mai questa «fanciulla di Faon» fa pensare a suggestioni ancora settecentesche: il romanzo del Verri L’avventura di Saffo, la tragedia di G. Pindemonte Il salto di Leucade) per lo «ignudo spirito», per il «notturno zeffiro» e il lamento della lira: l’immagine di Saffo con l’accenno al suo dolore non ha qui valore elegiaco, sentimentale, ma soprattutto vive come suggestione “blanda”, fantastica di una “Grecia” poetica, intima, in una notte serena e primaverile non eterogenea all’immagine di «Citera e Cipro ove perpetua odora primavera». E poeticamente questo assottigliarsi del tono, questa sua purezza tenue corrisponde al bisogno di una chiusa in cui toni trionfali sorgono dentro una intimità non orgogliosa, programmi coscienti della loro novità nascono da una necessità ideale e dentro un tono che smorzi la loro possibile superba novità.

Ond’io pien del nativo

aer sacro, sull’itala

grave cetra derivo

per te le corde eolie

e avrai divina i voti

fra gl’inni miei delle insubri nepoti.

Dirà ancora il Porena[10] che questo vanto “greco” era assurdo (e che il Foscolo «poteva esser nato in Iscozia o sul Baltico o nella Selva Nera, tanto quanto a Zacinto») e che già il Parini aveva derivato «le corde eolie», ecc. Ma qui, piú che un accertamento della “grecità” foscoliana e di una distinzione assai facile del tipo di classicismo foscoliano da quello pure arricchito del gusto neoclassico di un Parini (con tanto concorso di rococò), si tratta di chiarire la presa di posizione del Foscolo che fondandosi sulla sua originale grecità («pieno del nativo aer sacro») si propone di immortalare l’amante con una poesia in cui la melodia greca passasse nei metri solenni italiani, nella eloquente poesia della gravitas cinquecentesca: una poesia, ripeto, che solo lui “greco” può attuare diversamente dagli altri classicisti di maniera come e piú di Orazio, il cui finale della XXX ode del terzo libro fu certo presente (ma come piú pesante e pedantesco) alla fantasia del poeta:

Dicar qua violens obstrepit Aufidus

et qua pauper aquae Daunus agrestium

regnavit populorum, ex humili potens

princeps Aeolium carmen ad Italos

deduxisse modos...

È su questo aspetto programmatico del finale (valido artisticamente e per nulla perturbante nel finale lieve e trionfale) che l’ode (componimento integralmente importante e ricco di valore costruttivo e come documento letterario) si lega alle intuizioni del Commento alla Chioma di Berenice.

2. Il «Commento alla Chioma di Berenice»

Il Commento nasce in un periodo di strenuo lavoro, nell’epoca dell’operoso «romitorio» di cui parlava al Cesarotti (2 aprile 1803, Epist., I, p. 176: «Sono stato in romitorio dalla Vigilia di Natale sino ai primi di Quaresima»), ed occupa gran parte del 1803: in una lettera alla sorella (Epist., I, p. 189) parla dell’opera prevedendo che «per la fine di settembre sarà finita e stampata»; ma questa in realtà (come risulta da una lettera del 10 novembre al Ministro della Guerra) fu pubblicata in novembre, anche se la dedica al Niccolini è del 20 luglio, data che indica la fine della composizione, non delle correzioni.

Fu opera di impegno e in tal senso ne parlava al Bodoni (22 giugno 1803, Epist., I, p. 186) dicendola iniziata prima in latino e raddoppiata durante la composizione, «tanta storia e arte poetica, e costumi antichi, e varietà di lezioni que’ pochi versi mi offrirono ad esporre».

Non c’è dubbio sulla serietà e l’impegno impliciti nell’origine di quest’opera (legata anche, come abbiamo visto a proposito del sonetto In morte del fratello Giovanni, a motivi autobiografico-letterari) che corrisponde, oltre che al preciso bisogno di un riepilogo della propria situazione di cultura letteraria di poetica, a quell’impeto di studio, a quel «furore di gloria» attraverso lo studio in cui, con qualche esitazione, il Foscolo (e si ricordi l’accordo autobiografico dei Frammenti su Lucrezio) cercava – accanto alla poesia che gli era apparsa esigua e riluttante (Alla Musa) – una personale o necessaria soddisfazione, come diceva in alcune lettere alla Arese (ad esempio, la 166 a p. 235 dell’Epist., I, «conviene insomma ch’io studi... poiché non si può diventare grandi con i fatti, tentiamolo con gli scritti...», e parlava di un possibile nuovo Ortis “aresiano”, «tutte le mie idee e le mie parole avranno quella verità e quel calore ch’io cerco invano studiando e che non si trova se non dopo aver sentito le passioni. Eppure conviene ch’io ricominci a studiare...»). Con il suo gusto di ironia e di elusione ambigua, che prelude alla traduzione di Sterne, il Foscolo ben presto (nello stesso commiato e poi nel frammento latino[11] al dotto di Weimar ed a cui appartiene la citazione iniziale con data 1804 aggiunta[12] con postilla autografa insieme ad una citazione dello «Spectator» e di Seneca certo posteriori: «Licuit vanas obtrudere coniecturas in nostro libello, et minutas correctiunculas ad fastidium usque ingerere operosisque criticorum nugis lectoris animum fatigare magis quam erudire, mera ludibria vanaque ingenii ostentamenta») volle rendere problematica e dubbia la direzione del suo libro tra serietà e scherzo, tra sfoggio di cultura per «furor di gloria» («carte dotte») e satira della vana erudizione dei «grammatici» del suo tempo («anime di cimici»).

In realtà (e ce lo indica anche proprio la parzialità della citazione sul testo) mi par chiaro come il carattere dello scherzo, della “sternizzazione”, sia da limitare alla parte di erudizione del commento filologico (erudizione fine a se stessa) e soprattutto alla parte delle congetture che è la parte per noi meno interessante, mentre rimane intatta e utilizzabile tutta la parte critico-poetica nei suoi presupposti autobiografici e poetici, come dimostra il legame sentimentale con l’epistola ad Hortalum e, nella patetica dedica al Niccolini, l’appoggio della sua proposta di «un nuovo metodo di studiare i classici, sola fonte di scritti immortali»[13] sul bisogno personale di studi, affermazione della propria originalità e della propria indipendenza, che viene su sino dal Piano di studi, là piú facile e piú in accordo con le teorie preromantiche del «Genio», qui piú approfondita e sicura fra cultura e genialità.

Il Commento cosí nella sua nascita complessa e nelle complesse offerte della traduzione, delle note, delle considerazioni, vale soprattutto come documento essenziale per la poetica foscoliana fra l’ode e i grandi sonetti da una parte e il futuro svolgimento dei Sepolcri e delle Grazie, la cui Ragion poetica non può prescindere da questa iniziale presa di posizione. Vale come conoscenza della “biblioteca” del Foscolo lettore di classici dopo l’esuberante eclettismo del Piano di studi, vale come conoscenza delle sue posizioni di fronte ai letterati contemporanei, sia da un punto di vista critico, sia soprattutto da un punto di vista di poetica. Ma diciamo subito: se una delle due proposte che il Foscolo fa è quella di «un nuovo metodo di studiare i classici» anche in direzione critica, di una specie di nuova critica integrale, anche là la proposta è subordinata effettivamente alla prima, a quella di una nuova poetica neoclassico-romantica che ha qui il suo piú sicuro punto di partenza, anche se è soprattutto nella concreta poesia che si potrà misurare il particolare apporto romantico qui addensato nel «passionato».

Sicché meno ci interessano le incertezze critiche giustamente notate ad esempio da E. Bottasso (Saggi critici di Ugo Foscolo, Torino, 1950 p. 10), quanto la posizione polemica di fronte al tempo letterario, la precisazione del carattere primitivo e religioso della poesia, del «mirabile e del passionato» in cui anche il preambolo dei Frammenti su Lucrezio essenzialmente converge in vigoroso anticipo di posizioni espresse criticamente nelle lezioni pavesi e poeticamente nei Sepolcri («Per me ho reputati grandissimi e veri poeti que’ pochi primitivi di tutte le nazioni, che la teologia, la politica, e la storia dettavano co’ loro poemi alle nazioni: onde Omero e i profeti ebrei e Dante Alighieri e Shakespeare sono da locarsi ne’ primi seggi...» (Prose, II, p. 196).

È soprattutto nel Discorso IV[14] che si chiariscono questi due punti di diverso valore: «il commento deve essere critico per mostrare la ragione poetica; filologico per delucidare il genio della lingua e le origini delle voci solenni; istorico per illuminare i tempi nei quali visse l’autore, ed i fatti da lui cantati; filosofico acciocché dalle origini delle voci solenni e dai monumenti della storia tragga quelle verità universali e perpetue, rivolte alla utilità dell’animo alla quale mira la poesia». (Opere, I, pp. 242-243).

Ecco, in questa posizione di programma critico-poetico (interpretazione e programma di poesia) non rivolto tanto ad eruditi e grammatici quanto ai letterati critici e autori, affiorare l’idea del poeta primitivo e civilizzatore in cui venivano a collaborare spunti umanistici attraverso il Gravina, il Conti con gli stimoli vichiani: il poeta è creatore di miti storici e filosofici nella loro radicale unità e nella loro funzione civile, di fronte a cui si comprende la diminuzione di simpatia per il barbaro (e falso barbaro) Ossian senza civiltà precisa, mentre si capisce come anche Callimaco, collaboratore con Conone alla deificazione della chioma di Berenice, nella esaltazione “civile” dell’amore coniugale di Tolomeo, possa apparire interessante al Foscolo pur nella sua particolare letterarietà alessandrina, che d’altra parte piaceva al Nostro per la elevatezza e raffinatezza formale entro cui meglio risplendono il «mirabile e passionato». La poesia deve essere profondamente didascalica, ma non ragionativa come quella didascalica di tipo illuministico contro cui il Foscolo rivolge prima la sua polemica, come poi si rivolge contro il neoclassicismo piú esteriore e contro il romanticismo che non riconosce i «limpidi di Grecia rivi».

Leggieri conoscitori dell’uom sono que’ retori, che, disapprovando la favola e le fantasie soprannaturali, vorrebbero istillare ne’ popoli la filosofia dei costumi per mezzo di una poesia ragionatrice, la quale si può usurpare bensí nella satira, ove l’acre malignità, cara all’umano orecchio quando specialmente è condita dal ridicolo, può talor dilettare. Ma non diletterebbe un poema che proceda argomentando, e che non idoleggi le cose, ma le svolga e le narri. La favola degli antichi trae l’origine dalle cose fisiche e civili che idoleggiate con allegoria, formavano la teologia di quelle nazioni: e nella teologia de’ popoli stanno sempre riposti i principi della politica e della morale: però nel corso del commento andrò estendendomi per provare con gli esempi questa sentenza, la quale dà lume a quel passo del filosofo: essere i poeti ispirati dai Numi e i loro versi venire da Dio... Onde se la poetica è tutta quanta enigmatica, ciò avviene perché non sia conosciuta sapientemente dal volgo...» (p. 264).

L’amore per una poesia profondamente didascalica è però irrorato di spiriti vichiani ed antirazionalistici con cui la posizione graviniana della Ragion poetica ritornava nel suo massimo vigore: μύθους ἀλλ’ού λόγουϚ. Miti, d’altra parte, non decorativi, ma carichi di verità passionale e di storia, capaci di commuovere e di ispirare ad azioni magnanime.

Ora la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all’indipendenza, gli ingegni al vero e al bello. Ha perciò d’uopo percuotere le menti col meraviglioso, ed il cuore con le passioni. Torrà le passioni dalla società, ma d’onde il meraviglioso, se non del cielo? (p. 265).

Ma d’altra parte questa esigenza di «cielo» (valida per la Chioma di Berenice nel senso vero e proprio di astrale, ma aperta in maniera piú generica ad un elemento sacro-civile) è poi trattenuta dal pericolo di ogni concessione ad astratti simbolismi coreografici dall’esigenza del concreto sensibile e mercé l’imitazione («moda dell’arti belle») della natura (vecchia formula, ma qui esprimente l’esigenza sopraccennata). «Quella [poesia] piú doma e vince la mente che piú percuote i sensi. Magnificavano le passioni, umanizzando gli Dei o divinizzando i mortali...» (p. 265). «Ché se taluno opponesse queste cose essere vere, non gli domanderei io che mai sappia egli di vero, anzi dirò ch’egli ben mi si oppone, giacché la nostra poesia è voto suono e lusso letterario[15]... Ma se ella fosse teologica e legislatrice come l’antica...».

Potrebbe quasi sembrare che a questo punto il Foscolo muovesse incontro a soluzioni totalmente romantiche (poesia contro scienza, poesia per la moltitudine) e magari a premesse di una specie di inni sacri, ma in realtà egli fu lontano da una poesia popolare[16] e non vide possibilità di vera poesia «teologica e legislatrice» se non in epoche passate, in condizioni particolari di civiltà e soprattutto nella religione greca che «ha che fare con tutte le passioni e le azioni, con tutti gli enti e gli aspetti del mondo abitato dall’uomo» (p. 267). Chiaro principio neoclassico (perciò essenziale nella teoria di Winckelmann[17]) dominato dall’esigenza di un meraviglioso e celeste legato alla terra e inevitabilmente dunque vivo nella mitologia greca, nella poesia greca, di fronte al quale anche «la magnifica barbarie di Ossian» («inimitabile sotto il beato cielo di Italia») appare incapace di suggerire nuova poesia, come può invece quella dei greci a cui gli italiani sono invitati a guardare, anche se «(purtroppo) la nostra poesia non può avere né lo scopo né i mezzi dei Greci e delle nazioni magnanime» (p. 269).

Il Foscolo veniva cosí staccando la sua posizione poetica sia dalle posizioni piú antiquate di classicismo illuministico e arcadico, sia da quella di un neoclassicismo esteriore («voto suono e lusso letterario») e di un romanticismo imitatorio ed equivoco ai suoi occhi nello stesso modello[18]. («Ben io volando con l’immaginazione a que’ tempi, guido fra le sue montagne quel cieco poeta, e siedo devoto su la sua tomba; ma io grido ad un tempo agli italiani: lasciate quest’albero nel suo terreno, poiché trapiantato tralignerà; simile a que’ fieri animali che dalla libertà delle selve tratti fra gli uomini, appena serbano vestigi della loro indole generosa. Ardiremo noi far soggetto di poema quella religione e quella storia, se il solo dubbio che l’autore viva nell’età nostra, scema gran parte della meraviglia?...»; p. 269).

Non insisterò sulle indicazioni delle note e delle considerazioni in cui cultura, poetica, spunti autobiografici e polemici si mescolano in questo documento interessantissimo di un Foscolo che sviluppa motivi vitali della sua poetica in mezzo a linee fitte e accavallantisi di un ritratto didimeo ancora in formazione, e solo nelle considerazioni finali (fra le quali alcune sono veramente erudizione vana e parodia di erudizione, come la VI sullo scavo del monte Athos o la VIII sulla pietra vocale di Mennone) ricorderò la Considerazione III (Diana Trivia) e la IX (Deificazioni) in cui, per meglio sentire il valore del nuovo classicismo foscoliano, il suo senso del «mirabile» (dalla religione mitologica) e del «passionato» (dalla società contemporanea)[19], si può rilevare la funzione nuova, non decorativa del mito tutto pieno di vita storica, di significato vitale.

Nella lirica alta, entusiastica, profetica, annunciata nel Commento (e si ripensi alle poesie del «conio dell’autore» del periodo dell’adolescenza con il loro confuso bisogno di vaticinio in cui si mescolava una esigenza tipica del Foscolo e una posizione del tempo) il mito, su cui avevano insistito Gravina e Conti[20], risentiva anche nel suo valore di lingua dell’umanità nel suo stadio primitivo, dell’influenza del pensiero vichiano. Influenza visibile soprattutto nella Considerazione III (Diana Trivia) e in parte della IX (Deificazioni), ma per la quale bisogna ricordare la limitazione del Donadoni (op. cit., p. 86: «pel Vico la società ha origine non dalla caccia, ma dalla proprietà e dall’agricoltura. Né le mitologie nascono per Vico da apoteosi di eroi, ma sono forme sensibili di psicologia popolare e di lotte e trasformazioni sociali. Ma soprattutto il Vico vede la storia degli uomini muoversi secondo un’idea prestabilita di provvidenza divina...») e il valore di stimolo che il pensiero vichiano ha nella poetica foscoliana, non di preciso modello o di teoria accettata ed applicata.

Il Foscolo sentí la suggestione della teoria dei «corsi e ricorsi» e soprattutto del valore della poesia come lingua della umanità primitiva, del periodo teologico ed eroico, del vigore estremo della parola e del senso sostanziale, religioso e civile del mito: «dalla favola si deve ritrarre la storia; poiché la favola non è se non tradizione oscura di cose avvenute, e può avere assai circostanze false, ma non può essere fondata sul falso» (Commento, p. 336).

Cosí Diana cacciatrice è costituita prima divinità legata al «primo stato dell’umanità», la caccia con il moltiplicarsi dei suoi attributi è resa indice del crescere delle «idee e necessità dei popoli» (p. 362) e una storia della prima civiltà umana viene cosí sbozzata alla brava: cacciatori, principi sacerdoti, sacerdoti, apoteosi, poeti-teologi, filosofi (p. 360).

Uno svolgimento piú che altro in funzione di una visione poetica (del resto il Foscolo dichiara in fondo alla Considerazione: «Gli uomini dotti possono con questi indizi andare piú oltre nello studio della storia del genere umano. Per me poco ho detto, di moltissimo che avrei potuto dire: ma né io scrivo trattati, né stimo in fatto di erudizione grande merito il diffondersi, bensí il contenersi»; p. 362): duraturo bensí è l’accordo di storia, religione, poesia alle origini della civiltà umana e quindi il valore essenziale dato al mito e alla parola poetica di documento storico e di funzione civilizzatrice.

Non si può naturalmente trascurare nell’esame della Chioma l’importanza che può avere l’esempio concreto rappresentato dalla traduzione del poemetto callimacheo-catulliano, ma va subito notato come nella traduzione prevalga l’esercizio stilistico piú rigido nell’intento di mettere in luce (e non sempre con successo) l’incontro di mirabile e passionato, di affettuoso e celeste, per cui quando ai vv. 12-15 il Foscolo annotava in margine: «tornare questi quattro versacci all’incudine» si può sentire la preoccupazione di “pulitura” formale prevalente in questo lavoro di traduzione applicata ad uno schema di immagini «ideoleggiante» e di perfezione gentile e affettuosa in cui il sublime greco era ridotto nelle minute proporzioni alessandrine. E d’altra parte proprio in quei versacci si sentiva lo sforzo di sfuggire il verso di facile suono neoclassico e di raggiungere in un piano ancora tecnico e preparatorio una musica ieratica e pure gentile, un colore brunito e splendente che riprende esigenze foscoliane e le complica con i suggerimenti piú caduchi del particolare testo.

A molti ella de’ numi

me, supplicando con le tese braccia,

promise quando il re, pel nuovo imene

beato piú, partia, gli Assirj campi

devastando e sen gia con li vestigj...

Ricerche di complessità e di superamento di questa a forza di incudine in versi perfetti, che mostrano nella loro scarsa riuscita una preoccupazione di esercizio, come questo verso pieno di iati e dittonghi:

destrier di Arsinoe locrïense alivolo,

come questi complessi di accenti e di nomi suggestivi e difficili:

E ad Idrocoo vicin arda Orïone

presso Callisto...

Licaonide piego all’occidente

duce del tardo Boote cui l’alto

fonte dell’Oceàn a pena lava,

come le inversioni aspre

(la del capo d’Arianna aurea corona)

e contorte

(essi non veri allora,

se me giovin gli dei, gemono guai).

Mentre piú ricca di spunti poetici, piú libera e realizzata è la traduzione dell’epistola catulliana ad Hortalum: attraverso una piú facile vicinanza di sentimento (la morte del fratello) negli sciolti (verso che d’ora in poi sarà il vero metro del Foscolo nel suo sdegno per il facile suono e implicitamente per la rima), nel suo piú alto bisogno neoclassico di una misura essenziale ed intima.

Ora l’esperienza dei sonetti e delle Odi entra attraverso questa traduzione nel metro che sarà per sempre il metro del Foscolo maturo, il suo strumento inconfondibile della prossima stagione poetica che qui trova dunque non solo le sue premesse di poetica teorica, ma anche i primi esempi di realizzazione poetica sia pure ai margini di un esercizio, di una traduzione, e di prove parziali nei frammenti delle Grazie inseriti nelle note e nella Considerazione III.

A leggere questi sciolti e a confrontarli con quelli settecenteschi di un Parini o di un Cesarotti si sente ormai come la lezione di quest’ultimo sia penetrata in profondo e come sul piano della poesia neoclassica a cui il Foscolo accede nella Chioma, con la sua particolare posizione, una estrema originalità – nata dal profondo, maturata e pensata attraverso lunghe esperienze e nel tormento intimo di un poeta senza indulgenza per se stesso – ormai li distingua e li indichi per le grandi prove successive piú fuori del dramma delicato suggerito da Catullo nella prima parte o dall’alessandrino elogio del pudore che caratterizza in tono minore la seconda.

Nel giro lungo, rilevato dell’arcatura che lega e spiega (non le preziose sottolineature pariniane, ma semmai attraverso certi passi delle Odi politiche del ’97 le piú ampie volute del vecchio Parini neoclassico), i singoli versi, scanditi ma senza quell’aria di “barbare” di altri neoclassici quasi compitanti e stecchiti, si alzano elastici e lievi, senza l’alone sonoro montiano e senza la secchezza di ripresa savioliana o l’arguta eleganza del Parini. Tutto è meno meccanico, meno impalcato, tutto piú moderno e classico (non retorica archeologica) e l’inversione tipica dei versi sciolti cosí fastidiosa in tanti poeti settecenteschi (il verso del Mattei citato a p. 351:

ma quell’istesso aveva raggio Conone)

è qui naturale ed efficace tra frenata misura e slancio represso e suggestivo:

lui per sempre da’ nostri occhi rapito.

Vita dei singoli versi e vita dell’organismo generale che supera la misura del sonetto sulla stessa via del procedere ad onda dei grandi sonetti.

La poetica del «mirabile» e del «passionato» tende a toni piú solenni e gentili insieme, su temi grandi e non privati, ma qui nella tenera epistola di Catullo nasce una prova davvero notevole sulla scia dei sonetti e in vista di una poesia degli «sciolti» ampia e mitica, certo piú gradevole della faticata traduzione della Chioma:

Sebbene me per dolor vigil consunto

dalle vergini dotte or discompagni

malinconia; né delle Muse io possa

esprimer della mente i dolci parti,

in tal burrasca di sciagure ondeggia,

però che al mio fratel l’onda che move

torpidamente del gorgo leteo

il piè pallido lava e strugge grave

sul lito Roëteo l’Iliaca terra,

lui per sempre dai nostri occhi rapito.

Ti parlerò piú mai? T’udrò narrarmi

i tuoi fatti, o fratel? Te vedrò mai,

o della vita mia piú desiato?

Ben t’amerò: ben sempre io la tua morte

con doloroso verso andrò gemendo;

siccome all’ombre di frondosi rami

geme del divorato Itilo i fati

Deulia cantando. Pur fra tanto lutto

questi, Ortalo, da me carmi tentati

del Battiade t’invio, perché non forse

le tue parole a errante aura fidate

tu invan credessi, e dal mio cor sfuggite.

Talor pomo cosí, dono furtivo

dell’amator, dal casto grembo sdrucciola

di verginella, cui (mentre in piè balza,

della madre all’arrivo, e obblia meschina

che riposto il tenea sotto la molle

veste) giú casca, e ratto si devolve

con lubrico decorso. A lei discorre

conscio rossore sul compunto viso...

Ma nella nota al v. 57 (p. 314) e nella Considerazione XII (pp. 395-397) vi sono dei frammenti poetici che ci debbono piú interessare delle due traduzioni: sono quattro frammenti che il Foscolo presentò come tradotti da «un antico inno alle Grazie» e portati apparentemente a suffragare le sue osservazioni, prima circa gli «idoli» (le figure mitiche delle ore) e poi circa le «chiome» nella poesia antica.

Sono frammenti da una stesura piú lunga utilizzata dal Foscolo in questa occasione o esercizi poetici nati proprio fra traduzione e commento in questi mesi del 1803? Non c’è dubbio che essi nascano «frammenti» nell’originalissimo clima della Chioma e costituiscano evidentemente un’applicazione della poetica enunciata nel Commento e provata piú marginalmente nella traduzione, e nascano proprio in osservazione sul «mito», tra poesia e civiltà, accanto a osservazioni stilistiche sul modello catulliano-alessandrino in contatto con l’esempio di Omero «maestro di questi bellissimi idoli».

Questi frammenti accanto alle traduzioni e alla grande ode accentuano in una tipica aria di esercizio e di calco omerico-alessandrino la pittura melodica («la melodia pittrice») nell’accordo del «mirabile e passionato» e piú nello sviluppo del «mirabile», e insieme rivelano il bisogno di inno, di carme, di mito antico, greco, e di perfezione di immagine.

Odorata spirar l’aura dai crini

molli ancor per la fresca onda del Xanto

sentiano i venti, perché venne Apollo.

A lui furtive sorridean di Anfriso,

de’ pastorali amor conscie, le Ninfe,

alla mensa ministre. Intanto le Ore

scioglievan dall’aureo cocchio i corridori,

e risciacquando nel Penèo le briglie,

spremean la spuma...

Non solo è importante l’indicazione di «Inno alle Grazie» come precoce nascita della maggiore opera del Foscolo, ma, lungi dalla pienezza poetica del poema della piena maturità, importante è il «dipingere» delle «Grazie»; l’esempio piú esterno di una costruzione poetica a cui piú si avvicinano le parti meno interne e trasfigurate delle Grazie.

Ed importante è anche la coscienza della raffinatezza di tale direzione (prima dell’esperienza essenziale dei Sepolcri e di un arricchimento nucleare del passionato con storia e civiltà e prima dell’essenziale esercizio di calma grandezza delle traduzioni omeriche) affermata nella Considerazione XII (p. 396): «Quantunque questa poesia non abbia i caratteri della nobile semplicità omerica, e senta al mio parere la raffinatezza dei poeti latini, veggonsi nondimeno disjecti membra poetae ed un ardire felice». La «edle Einfalt» di Winckelmann (e Winckelmann è citato nelle stesse pagine) è evidentemente una meta del Foscolo, ma siamo anche in una zona di “calco”, di una poesia piú esterna e descrittiva con riprese abili, con scoperte di immagini omeriche

(de’ dardi il tintinnar dentro il turcasso

aureo capace e pien d’eterna possa),

con inserzioni di forme approssimative e preziose

(che sparse al vento van mutando anella

e mostran vari ognor biondeggiamenti)

con espedienti un po’ grossi come suono

(allora ch’ei monta per lo sacro clivo),

con moduli di linguaggio classicistico-omerico

(i rai deposti

tutto veggenti e il telo onnipotente),

con figure di dei piuttosto rigide e convenzionali, sequenze di versi poco legati.

Ma certo in questi frammenti nati fra erudizione e “poetica”, fra citazioni (delle «Grazie» parlano anche i versi di Pindaro riportati a p. 395) e come esempi di personificazioni mitologiche, di vita dei miti fra i greci (il frammento di Tiresia sarà ripreso nelle Grazie), si preparava letterariamente una direzione poetica di «armonia», di suggestione di «melodia pittrice» di stati d’animo eletti e trasfigurati che qui si affacciano come ancora sbiaditi e rigidi:

Spiran soave odore, ma non di mirra,

non delle rose di Cirene odore,

inclite rose! Ma cotal fragranza

mandan pari all’armonia che diede

d’Orfeo la lira, allor che al sacro capo

dalle baccanti di Bistonia infissa,

venne nell’alto Egeo spinta dai monti,

e un’armonia suonò tutto quel mare,

e l’isole l’udiano e il continente,

sebben né vate mai né arguta corda

di Lidia cantatrice a quel fatale

suono diè legge e nome...


1 La cadenza piú nostalgica venne limitata nella grande ode e passò semmai nelle Grazie per le quali appaiono indicativi certi passi (ved. pp. 214, 240, 341): «Quante soavi memorie ti devo! quando la morte e la fortuna ci avrà disgiunti, come ha tentato di disgiungerci la perfidia degli uomini, io le porterò queste sacre e preziose memorie in tutte le mie peregrinazioni; consolerò i miei giorni sventurati e le farò seppellire con me».

2 F. Algarotti, Opere, Venezia 1792, IV, p. 123.

3 Manca, ad esempio, nell’ode del Manzoni Qual su le Cinzie cime che pure fu concepita in condizioni simili e in un gusto simile e che il Porena (op. cit., pp. 423 e ss.) considerava come precedente dell’ode foscoliana parlando di plagio(!) per un’opera cosí modesta, giovanile e scadente tutta intarsiata di ricordi pariniani e certamente foscoliani anche dalla prima ode. E se anche qualche verso letto dal Foscolo aveva potuto muovere la sua fantasia sarebbe veramente il caso della valorizzazione di un operato inferiore da parte di un ingegno superiore. La deificazione (tal... quale) rientra benissimo sic et simpliciter nel gusto del tempo: il Foscolo ne fece una operazione particolare, complessa, sua e soprattutto ne cavò poesia, mentre il giovane Manzoni ne derivò un pallido paragone galante: «Qual su le Cinzie cime / alta sovrasta a le minori Oreadi / col volto e col sublime / d’auree frecce sonanti omero Delia, / e appar movendo per le sacra riva / veracemente Diva / tal prima agli occhi miei / non ancor dolci di amorose lagrime / appariva costei...» (Opere inedite o rare di A. Manzoni, a cura di R. Bonghi).

4 Si calcoli anzitutto la novità rispetto alla prima dell’endecasillabo finale in cui l’andatura agile e precisa delle strofe trova una conclusione piú larga e suggestiva, come un respiro che allunga tutta la strofa e traduce il fondo sentimentale piú ricco di sfumature fra estasi e attenzione pensosa, posta sui punti piú significativi di giuntura con improvviso slargo, con sottolineatura musicale di valore inestimabile, sí che ben si avverte anche in questa la vicinanza ai grandi sonetti, e l’utilizzazione sulla direzione di una musica varia e piacevole delle esperienze sonettistiche dell’organismo lungo e complesso, continuo dei sonetti. Sui finali delle strofe si trovano le espressioni piú intime e sospirate, piú perfette e piú intimamente vibranti: «le nate a vaneggiar menti mortali...», «trepide madri e sospettose amanti...», «te principio d’affanni e di speranza...», «fra il basso sospirar vola il tuo canto...», «che or con l’alma salute April ti manda...», «chi la beltà fugace / ti membra e il giorno dell’eterna pace...», ecc.

5 Non solo il Parini è presente con precise immagini (ma quanto trasformate: – «fiorir sul caro viso / veggo la rosa» – da un balenare lento ed intimo di immagini), con la ripresa della ottava strofa dei versi di A Cecilia Tron («E a le nevi del petto / chinandosi, dai morbidi / veli non ben costretto / fiero dell’almo incendio / permettea fuggir»), ma suggestioni di linguaggio («l’indica veste» che riprende «l’indica benda» di A Silvia), che precisano nella lingua eletta cui il Foscolo sempre piú tendeva la direzione ancora sperimentale di una precisione e nobilitazione classica soprattutto nell’aggettivo.

6 Giustamente il Praz (Gusto neoclassico, Firenze 1940, p. 280) nota come il travestimento greco e mitico fosse naturale nelle Odi foscoliane: «Le immagini del poeta erano naturali in un ambiente in cui il comodino si chiamava somno, lo specchio psiche, la poltrona agrippino, il bruciafiamme o il lavabo athinéenne, in un ambiente a cui il letto simulava un’ara sormontata dal tempietto del baldacchino».

7 Nell’Ajace e nelle Grazie il «vaneggiar» si cambierà in «delirar».

8 «L’ironia galante di Orazio assume un tono quasi tragico nel nostro poeta...» (U. F., Torino 1928, p. 151).

9 Nell’odicina del ’94 Alla bellezza si leggeva «che mentre accento modula / a sospirare invita».

10 Fra i Sonetti, le Odi e i Sepolcri («Atti dell’Accademia dei Lincei», 1937, p. 422).

11 L’abitudine del latino per forme ironiche sotto apparenze solenni e sacerdotali è già attestata nella vivace lettera da Pavia del 1803 ed è anche uno degli spunti su cui si viene costruendo la figura di Didimo Chierico.

12 Nella lettera la sconfessione della intenzione seria diventava piú esplicita, mentre la citazione nella postilla alla Chioma rimane piú lieve e piú ambigua e piú limitativa. Nella lettera proseguiva: «ut vitio vitia eruditorum deterrerem. Si hoc tuli punctum perfeci libellum, tenuissima gloria, fateor. Quisquis tamen nos laudat vel vituperat, serio legens quidquid lusimus, non nostrum, sed opus quod sibi fingit existimat» (Ep., I, p. 429). Già il 16 dicembre 1803 al Ginguené accennava al libro in cui «l’autore si ride degli autori». E nella lettera del 9 febbraio 1804 al Pindemonte scherzava sulla propria «dissenteria di erudizione».

13 Affermazione pienamente in regola con quella del Parini nella Gratitudine o con quella del mediocre Lamberti. E il Niccolini sarà qui presentato come «devoto» ai greci («premio alla tua devozione a’ poeti greci»).

14 Il Commento è composto da quattro discorsi (Editori, interpreti, e traduttoriDi BereniceDi Conone e della costellazione bereniceaDella ragione poetica di Callimaco), dal testo catulliano della Epistolium ad Hortalum e della Chioma di Berenice con note a piè di pagina, dalla versione foscoliana e infine da quattordici considerazioni di vario valore (Diana Trivia, Sacrifici di chiome, Scavo del monte Athos, Statua vocale di Mennone, Deificazioni, Venere celeste, Chiome bionde, Codici, ecc.) e da un avvertimento e un commiato.

15 «Sdegno il verso che suona e che non crea», dirà nelle Grazie.

16 Come invece pare ammettere erroneamente il Bottasso (Saggi critici del Foscolo, Torino 1950, p. 23).

17 «Tornando adunque alla poesia, la quale non è per gli scienziati (che tutto veggono, o credono di vedere, discevrato dalle umane fantasie), bensí per la moltitudine, parmi provato ch’ella non possa stare senza religione. Nondimeno quel poeta che volesse usare di una religione involuta da misteri incomprensibili, che rifuggisse dall’amore e da tutte le universali passioni dell’uomo, che tutti i piaceri concede alla morte, ma scevri di sensi, nulla fuorché meditazioni e pentimenti alla vita, che poco alla patria e alla gloria, poco al sapere, è prodiga a sottili speculazioni ed avarissima al cuore, che per l’ignoranza o il cangiamento di una idea, per la lite di una parola produce scismi ed attira le folgori celesti, quel poeta procaccerebbe infinito sudore a se stesso, e scarsa fama al suo secolo. Ché ove cotal religione fosse poetica, chi potea meglio maneggiarlo di quell’ingegno sovrano, il quale dopo avere dipinta tutta la commedia de’ mortali, dove la religione prende qualità dalle azioni ed opinioni volgari, non sí tosto arriva alla spirituale, ch’ei s’inviluppa in tenebre ed in sofismi? i quali se mancassero del nerbo dello stile e della ricchezza della lingua, e se non fossero interrotti dalle storie de’ tempi, sconforterebbero per se stessi gli uomini piú studiosi» (p. 267).

18 Ciò non toglie che poi il Foscolo abbia riconosciuto attraverso il saggio dello Hobhouse il suo debito verso il cesarottismo e che noi vediamo piú obbiettivamente la grande importanza dell’Ossian per tutta l’opera foscoliana.

19 Ben altra cosa del precetto piú accademico di Chénier («sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques») o da quello con cui il Pindemonte credeva di poter rimproverare l’eccesso mitologico dei Sepolcri («antica l’arte onde vibri lo stral, ma non antico / sarà l’oggetto in cui miri»).

20 Per le relazioni tra Foscolo e Conti si veda l’importante lavoro di F. Ghisalberti, Foscolo e l’abate Conti, Torino 1927.